Avellino, dalle origini all’età moderna del capoluogo dell’Irpinia

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L’origine di Avellino è sicuramente molto antica. C’è da dire che la primitiva città Abellinum sannitica, divenuta in seguito romana, sorgeva un po’ più a valle, precisamente dove oggi si trova la città di Atripalda, esattamente sulle sponde del Fiume Sabato.

Situata in confluenza di strade, Abellinum fu un fiorente mercato di scambi fra i prodotti provenienti dalla costa e i prodotti agricoli e pastorali delle zone più interne. Col diffondersi del Cristianesimo, inoltre, la città divenne sede vescovile. A seguito delle invasioni barbariche, Avellino venne distrutta dai Longobardi in lotta contro i Bizantini.

Fu allora che gli avellinesi, rifugiatisi sui colli vicini, cominciarono a ricostruire la città sull’altura detta “la Terra”, ove oggi sorge il Duomo. Fu così che quel piccolo borgo longobardo prese il nome da un vecchio toponimo, “Avellinum”.

Durante il XII secolo, ad Avellinum venne prima costruita e poi ampliata la cattedrale più grande e rappresentativa della città. Il luogo conserva le reliquie di S. Modestino, fatto che accrebbe notevolmente il suo prestigio. Oggi, rappresenta un’indiscussa funzione di richiamo di fede e di devozione.

Nel 1223, a seguito di una grande riorganizzazione amministrativa ad opera di Federico II di Svevia, la città fu incamerata nel Regio Demanio, riuscendo persino ad usufruire di particolari vantaggi previsti in questi casi dal rigido sistema tributario del tempo. Successivamente, sotto il regno di Carlo I d’Angiò, la capitale fu trasferita da Palermo a Napoli e il Regno fu diviso in principati.

Il Principato di Salerno, a cui Avellino apparteneva, fu diviso in due parti, “Citra” e “Ultra Terras Montorii”. Di quest’ultima, Avellino divenne il capoluogo. La città godeva di una posizione geografica invidiabile essendo situata proprio all’incrocio tra due fondamentali assi viari: la via dei Due Principati e la via Regia delle Puglie. La prima collegava Benevento (antico capoluogo longobardo) a Salerno, lo sbocco più diretto sul mare. La seconda consentiva gli scambi tra le città costiere campane (capitale compresa) e i centri pugliesi dell’entroterra e della costa. Avellino si consolidava, così, come nodo stradale di transito, nonché come centro di attività mercantili e agricolo-artigianali.

Alla fine del Medioevo, sotto la spinta dei tempi nuovi, la città di Avellino si andava trasformando. L’antica cittadella arroccata sulla collina della Terra lungo l’asse castello-cattedrale cominciava ad espandersi. Col tempo, veniva meno la funzione prettamente militare del castello e delle mura, mentre si rafforzava la natura economico-sociale di centro agricolo e, soprattutto, commerciale. Tuttavia, le vicende belliche, le epidemie e i frequenti terremoti determinarono un sensibile decremento demografico ed economico.

Nel 1581, il feudo fu venduto a Marino Caracciolo, rappresentante di una famiglia tra le più antiche e potenti della nobiltà napoletana. Ebbe, così, inizio un sistema feudale che sarebbe durato ininterrottamente per più di due secoli, fino alla sua soppressione avvenuta nel 1806. L’economia del luogo, in quegli anni, ebbe una notevole crescita grazie alla creazione di gualchiere, ferriere e cartiere, nonché all’attività molitoria, favorite tutte dallo sfruttamento dei numerosi corsi d’acqua presenti sul territorio. Inoltre, fu molto importante anche la ristrutturazione della regia via delle Puglie, resa carrozzabile tra il 1560 e il 1592. Tutto ciò determinò un notevole incremento demografico e contribuì ad un ulteriore sviluppo delle attività produttive cittadine.

Camillo Caracciolo, poi, succeduto al padre, curò molto le opere socioculturali. Nel 1604, emanò gli Statuti dell’Arte della lana e fece costruire un Conservatorio di suore per occuparsi dell’educazione di fanciulle di buona famiglia, con annessa chiesa destinata a diventare la cappella gentilizia della famiglia feudataria. Ebbe, inoltre, dimestichezza con letterati e fu anche socio dell’Accademia degli Oziosi, uno dei tanti cenacoli letterari proliferati in età rinascimentale nel Regno di Napoli.

Anche il castello fu adeguatamente restaurato e arricchito con un magnifico parco, adornato di statue e fontane e rifornito di svariata cacciagione e di fiere, spesso citato dai cronisti del tempo tra le “meraviglie del regno”.

Il figlio di Camillo, Marino II, volle dare un nuovo volto alla città antica e ai sobborghi, costruendo nuove abitazioni per le classi più povere. Così, agli ingressi opposti della nuova città, vennero innalzate due porte monumentali: Porta Napoli e Porta Puglia. Inoltre, nel suo palazzo, reso ancora più lussuoso, ospitò le riunioni dei letterati dell’Accademia dei Dogliosi, da lui stesso presieduta. Si avvalse della collaborazione del “Maestro di Corte”, il conte Maiolino Bisaccioni da Ferrara il quale, nella sua opera “Dell’Albergo”, illustra i fasti della corte principesca avellinese che furono interrotti solo dalla peste del 1656.

Per risollevare l’economia di Avellino, il principe avviò un’opera di ricostruzione e di abbellimento della città assai impegnativa, ricorrendo alla preziosa collaborazione dell’architetto e scultore bergamasco Cosimo Fanzago, dal 1608 molto attivo a Napoli.

Il programma di rinnovamento iniziò proprio dal Palazzo della Dogana. L’edificio simbolo dell’economia avellinese fu prima rinforzato dal punto di vista strutturale e poi abbellito ulteriormente. La semplicità delle linee architettoniche, l’inserimento di statue, lastre marmoree, busti e pinnacoli resero la facciata molto elegante.

Grazie ai dati del Catasto Onciario (1745), sappiamo che la Avellino del ‘700 contava quasi 7 mila abitanti (precisamente 6923), appartenenti a varie classi sociali. Tra di esse, risulta quasi totalmente assente quella dei nobili i quali, per buona parte, si erano trasferiti nella capitale.

Per quanto sempre prodiga e propensa a ricevere illustri ospiti con sontuose feste, come quella del 4 gennaio 1735 in onore della visita del re Carlo III, la classe feudataria cominciava a registrare un calo della propria popolarità. Erano le prime avvisaglie del mutamento dei tempi.

Andava scemando persino il ricordo dell’antico prestigio legato all’immagine simbolica del castello. Nel 1761, infatti, la struttura veniva adibita a locanda pubblica, poi conosciuta come “Casina del Principe” che una volta costituiva l’ingresso monumentale al tanto celebrato parco. Inoltre, la rivoluzione napoletana del 1799 non coinvolse in maniera attiva la popolazione né da parte giacobina né da parte sanfedista, neanche quando il cardinale Ruffo entrava ad Avellino prima di marciare su Napoli (10 luglio 1799). In Campania, si stava entrando sempre più nella storia contemporanea.

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